Lo scoglio del firing cost
La rimozione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori resta al centro del dibattito sulla riforma del lavoro
La parola firing cost evoca il fuoco (fire) che è il termine usato negli Stati Uniti per descrivere il licenziamento. L’espressione «you are fired»(sei licenziato!) è diventata familiare anche per noi per la frequenza con cui nelle produzioni cinematografiche e televisive d’oltre oceano che hanno buon mercato in Italia.
Per gli analisti aziendali il «firing cost» esprime il peso economico e il rischio che il datore di lavoro è chiamato a sostenere nel caso decida di mandare a casa un dipendente. Una scelta che per alcuni imprenditori diventa un dilemma angosciante. Nel pieno dell’attuale crisi economica giungono notizie di responsabili di piccole e medie aziende che entrano in depressione fino a togliersi la vita perché non vogliono licenziare dei collaboratori che considerano amici, più che subalterni. Le banche, però, non gli fanno più credito, hanno chiuso il fido e non si vedono alternative. La stabilità, quindi, nasce da una serie di regole non scritte, dal senso di lealtà e condivisione che sostiene il rapporto. Ma se questo presupposto, per qualsiasi motivo, viene meno resta il diritto.
Tabù e investimenti mancati In Italia una norma prevede la possibilità, andando in giudizio,di ottenere il reintegro sul posto di lavoro del dipendente licenziato senza una giusta causa. Anche se la tutela è prevista solo nelle aziende con più di 15 dipendenti, questa possibilità spaventa il datore di lavoro che potrebbe vedersi arrivare, dopo tanti anni, una sentenza che lo obbliga alla riassunzione in servizio, con tanto di arretrati da pagare e sanzioni per risarcimento danni al lavoratore licenziato. Meglio allora spostare le sedi di lavoro all’estero, dove le maglie del diritto non sono così vincolanti.
Nel Il libro “Inchiesta sul lavoro”, del giuslavorista Pietro Ichino riporta casi di un vero e proprio mobbing al contrario, cioè dipendenti licenziati che intentano cause e perseguitano gli imprenditori, costringendoli persino a chiudere i battenti.
La soluzione, secondo Ichino, si trova nel poter risolvere un contratto di lavoro definendo con precisione i costi di liquidazione a carico dell’impresa, chiamata ad assicurare, assieme all’Inps, un reddito significativo per tre anni (rispettivamente il 90,80 e 70 per cento dell’ultima paga per il primo, secondo e terzo anno di disoccupazione). Più celermente ritrova un lavoro chi è stato licenziato e meno pagherà l’imprenditore che lo ha messo fuori dall’azienda.
La proposta potrebbe essere applicata solo per i nuovi assunti, preceduta da una fase di sperimentazione volontaria per valutarne gli effetti concreti. In questo modo verrebbe meno gradualmente l’applicazione dell’articolo 18 sui licenziamenti illegittimi. Il “tabù” di queste settimane.
Furore ideologico e recessione A favore della necessaria flessibilità in entrata e in uscita, si sono espressi in molti, giornalisti e storici sindacalisti, ma l’attacco all’articolo 18 è usato come diversivo per non vedere la realtà. Una realtà amara che Confindustria ha condensato, nel biennio 2012-2013, in una perdita di 800 mila posti di lavoro. Il messaggio è chiaro: in una situazione di recessione bisogna creare occupazione e reddito, includendo gli esclusi, e non invece privare di difese quella parte che ancora può usufruire delle conquiste dei diritti civili sui luoghi di lavoro. Anche secondo Giorgio Squinzi, già presidente di Federchimica, a capo di un gruppo con sedi in 40 Paesi, afferma che la licenziabilità dei dipendenti è «l’ultimo dei problemi». Secondo Pierre Carniti, ex segretario generale della Cisl, il ricorso all’articolo 18 riguarda meno di 70 casi all’anno. Per offrire sicurezza nella definizione dei costi per l’impresa, senza far venire meno il diritto a non essere licenziati senza una giusta causa, occorrerebbe accelerare sui tempi di giudizio.
Forse questa proposta farebbe abbassare i toni delle dichiarazioni e consentirebbe alle parti sociali di affrontare i nodi strutturali che determinano la produttività e gli investimenti in ricerca, sviluppo e formazione permanente. Su quest’ultima i numeri italiani sono risibili a confronto con la Danimarca, dove ogni anno, ben il 13 per cento dei dipendenti è coinvolto in un corso di aggiornamento professionale che fa vedere la flessibilità come possibilità di cambiamento e miglioramento dell’occupazione, non come girone della precarietà.
Il dibattito è quindi ricco, aperto e dovrebbe portare a scelte ponderate.
La soluzione, secondo Ichino, si trova nel poter risolvere un contratto di lavoro definendo con precisione i costi di liquidazione a carico dell’impresa, chiamata ad assicurare, assieme all’Inps, un reddito significativo per tre anni (rispettivamente il 90,80 e 70 per cento dell’ultima paga per il primo, secondo e terzo anno di disoccupazione). Più celermente ritrova un lavoro chi è stato licenziato e meno pagherà l’imprenditore che lo ha messo fuori dall’azienda.
La proposta potrebbe essere applicata solo per i nuovi assunti, preceduta da una fase di sperimentazione volontaria per valutarne gli effetti concreti. In questo modo verrebbe meno gradualmente l’applicazione dell’articolo 18 sui licenziamenti illegittimi. Il “tabù” di queste settimane.
Furore ideologico e recessione A favore della necessaria flessibilità in entrata e in uscita, si sono espressi in molti, giornalisti e storici sindacalisti, ma l’attacco all’articolo 18 è usato come diversivo per non vedere la realtà. Una realtà amara che Confindustria ha condensato, nel biennio 2012-2013, in una perdita di 800 mila posti di lavoro. Il messaggio è chiaro: in una situazione di recessione bisogna creare occupazione e reddito, includendo gli esclusi, e non invece privare di difese quella parte che ancora può usufruire delle conquiste dei diritti civili sui luoghi di lavoro. Anche secondo Giorgio Squinzi, già presidente di Federchimica, a capo di un gruppo con sedi in 40 Paesi, afferma che la licenziabilità dei dipendenti è «l’ultimo dei problemi». Secondo Pierre Carniti, ex segretario generale della Cisl, il ricorso all’articolo 18 riguarda meno di 70 casi all’anno. Per offrire sicurezza nella definizione dei costi per l’impresa, senza far venire meno il diritto a non essere licenziati senza una giusta causa, occorrerebbe accelerare sui tempi di giudizio.
Forse questa proposta farebbe abbassare i toni delle dichiarazioni e consentirebbe alle parti sociali di affrontare i nodi strutturali che determinano la produttività e gli investimenti in ricerca, sviluppo e formazione permanente. Su quest’ultima i numeri italiani sono risibili a confronto con la Danimarca, dove ogni anno, ben il 13 per cento dei dipendenti è coinvolto in un corso di aggiornamento professionale che fa vedere la flessibilità come possibilità di cambiamento e miglioramento dell’occupazione, non come girone della precarietà.
Il dibattito è quindi ricco, aperto e dovrebbe portare a scelte ponderate.